di Federica Capoduri.
Tra Veneto e Sicilia, ricerca e tradizione, il lavoro e la vita dell’architetto e designer Gaetano Di Gregorio sono mossi da continui dualismi. Nato a Catania, si trasferisce per studiare architettura a Venezia e non la lascia più, anche se in Sicilia torna spesso, con la testa e fisicamente, per “sporcarsi” le mani.
Grazie a due periodi formativi in Cina, dove sperimenta le tecniche di lavorazione della porcellana, Gaetano porta avanti una forte passione materica, prestando molta attenzione al processo che porta alla produzione e preferendo creazioni in piccola serie, spesso anche autoprodotte.
Trisola, tavolo-gazebo realizzato da maestranze catanesi per Orografie; Gaetano Di Gregorio
Emblema di questa dualità percettiva e di approccio alla progettazione è il tavolo-gazebo ‘Trisola’; un sistema che è tanto rifugio quanto finestra. Raccontacelo.
Il tavolo nasce da un brief del brand Orografie, in cui si chiedeva d’immaginare nuovi oggetti che indagassero il rapporto del corpo con la tecnologia. Cellulari, tablet, schermi stanno modificando il nostro modo di vivere, creando persino nuove posture. Ci siamo ritrovati a utilizzarli ovunque, dentro e fuori casa, in treno come in giardino.
Mi sono voluto concentrare su un tavolo per esterni costruito come un piccolo padiglione che ha l’ausilio di una tenda, la quale definisce un limite tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra isolamento e convivialità. Il risultato è un’isola colorata e semitrasparente su tre gambe: da qui il nome Trisola, che richiama la Trinacria e la matrice siciliana del progetto Orografie.
Trisola, tavolo-gazebo con tendaggio scorrevole su struttura in tubolare di ferro che poggia su solide gambe realizzate in graniglia con la tecnica delle cementine siciliane, per Orografie
Anche il piano del tavolo cambia la sua funzione?
Mantenuto nella sua interezza, il piano circolare può ospitare un banchetto o consentire a sei persone di sedersi. Se ripiegato a metà, invece, può diventare una scrivania su cui lavorare. In quest’amalgama di smart working, isolamento forzato e desiderio d’incontro dato dalla pandemia, questo progetto prova a connettere una dimensione virtuale, legata al lavoro e alle comunicazioni, con una più fisica e tradizionale.
Elastable, tavolo modulare in multistrato di betulla e corde elastiche
Sogno Borghese flessibile, specchio in materiale plastico specchiante, D.A.B. Design per artshop e bookshop dei musei, produzione GiGiMedici, Modena
Pensi che ci saranno nuovi modi di vivere gli spazi, domestici e non?
Inevitabilmente niente sarà più come prima e il design per la casa deve prendere sempre più atto di come cambiano gli stili di vita e lavoro, le esigenze, l’uso degli spazi. Tutto sembra portare verso una dimensione più flessibile, verso usi promiscui, con arredi che possano essere davvero mobili, spostabili, modificabili.
La pandemia ha fatto riscoprire il valore della casa, la necessità di uno spazio aperto oltre le stanze, di ambienti che consentano un po’ di privacy, di sfondi neutri, di una cucina comoda. Al di là del momento contingente, il nostro rapporto con gli spazi della casa è sicuramente cambiato, il privato è diventato pubblico, venendo meno i luoghi d’incontro.
Fabrics, servizio di piatti in ceramica che presenta un’impronta manuale molto caratterizzante, come se fossero degli origami piegati a mano, più o meno concavi in base alla piega
Ami molto la porcellana, materiale di cui hai studiato la lavorazione in Cina. Destinazione scelta o casuale?
Quando ho fatto richiesta di borsa di studio per residenze d’artista all’estero, mi sono trovato a dover scegliere tra una struttura cinese, una giapponese e un’altra messicana. Con una buona dose di superficialità, pensai che in Messico e in Giappone sarei sicuramente andato, quindi poteva essere interessante esplorare la Cina, paese per me culturalmente distante.
Appena arrivato, mi è bastato visitare la collezione di porcellane dello Shanghai Museum per capire che 5000 anni di tecnica e pratica rendevano i loro manufatti non paragonabili con quelli occidentali, a cui ero abituato, a partire dalla ceramica di Caltagirone che avevo cominciato a lavorare da ragazzo. Era un altro mondo, fatto di un materiale, di forme e di approcci, alla produzione e al consumo, diversi.
Tulipiere, ceramica. Vaso per tulipani presentato al Salone Satellite di Milano nel 2008
Ad esempio?
Il semplice fatto che una scodella dalla forma semplicissima, realizzata nel XVII secolo, di un delicato colore verde giada, fosse il risultato di una selezione di almeno 300 pezzi eliminati perché non della stessa tonalità di colore gradita all’imperatore e ottenuta dai fumi di fronde di pino verdi, mi ha fatto percepire di essere realmente altrove.
Dehua Tales, piccola collezione di vasi basata sul processo di re-design, che ha trasformato gli scarti di produzione in nuove forme, dal diverso significato. Prodotti in Cina nel 2015
Che esperienza è stata e di cosa hai fatto tesoro?
L’esperienza di lavoro in una vecchia manifattura ai margini della città di Jingdezhen, circondata da risaie, in un tempo sospeso, dove gli operai avevano sviluppato un virtuosismo della produzione in serie tale da rendere perfetta ogni singola tazza, ammetto che ha cambiato la mia idea di attività con la ceramica.
Quella cinese è stata un’esperienza che nel tempo mi ha influenzato il segno, ma soprattutto il pensiero sulla materia. Ho poi compiuto una seconda, feconda esperienza in Cina nel 2015, questa volta a Dehua, patria della purissima porcellana bianca, all’interno di una grande manifattura che ha aperto le sue porte ad artisti internazionali per interagire con la sua produzione.
Doppiopiatto, in vetro e ceramica, realizzato da VeVeGlass per la mostra Vetro da Usare, Venezia, 2010
Si capisce come la ceramica sia il tuo materiale elettivo. E con il vetro, invece, che rapporto hai?
Abitando a Venezia ho la fortuna di poter frequentare Murano; questo mi ha consentito di produrre qualche pezzo, ma sempre associandolo alla ceramica, che ne ha costituito lo stampo, sia col vetro soffiato, sia con lastre termofuse. In particolare, quest’ultima tecnica mi ha portato a realizzare un oggetto, Doppiopiatto, in cui lo stampo diventa parte integrante del pezzo finito e non resta in fornace per produrre un altro pezzo in vetro, ma si porta a tavola raccontando il processo produttivo.
Bird House, casette per uccelli in ceramica, un oggetto per i volatili ma anche per gli uomini
Interessante come questi due materiali, nonostante siano così diversi, si sovrappongono spesso.
Il vetro, trasparente e leggero e la ceramica, opaca e pesante. Oggettivamente distanti, entrambi partono da una matrice minerale che attraverso le alte temperature di forni, cambia stato per diventare ora vetro, ora ceramica. La ceramica, una volta cotta, viene coperta di un sottile strato vetroso che non a caso si chiama vetrina o cristallina. Il vetro a sua volta può essere fuso e dolcemente adattarsi a uno stampo o forma in terracotta.
L’uno nell’altro, ma ci sono punti di contatto?
Sicuramente la natura plastica dei due materiali, che si adattano a essere formati in uno stampo. Il vetro è una massa fluida che richiede molta maestranza, mentre l’argilla invita alla manipolazione diretta, che personalmente amo di più.
Teapots, serie di teiere in ceramica presentate al Salone Satellite di Milano nel 2008
Quale significato dai all’autoproduzione?
Credo che il concetto di autoproduzione sia sempre esistito, ma oggi è come se avesse trovato un suo statuto. I motivi per cui s’impone sono molteplici. Su tutti il ritrovato piacere di mettere le mani sulla materia o di avere un contatto più diretto con le cose e con chi realizza fisicamente gli oggetti, spostando l’attenzione dalla pura progettazione alla partecipazione al processo produttivo.
Doge, teste di moro in forma di doge veneziano. Realizzate nel 2016 rispettando la sapienza degli artigiani di Caltagirone per riflettere su tradizione, immaginario e racconto, le teste sono un ponte tra due culture e due mondi affacciati sul Mediterraneo: la Sicilia e Venezia
Concetto che ti calza a pennello, perché ti piace molto usare le mani.
Esattamente; trovo l’autoproduzione un campo di grande libertà e sperimentazione, che può preludere a una produzione futura da parte di un’azienda e dove un ceramista come me, ad esempio, può conservare il privilegio di andare personalmente a scavare l’argilla naturale. A cavallo tra pezzo d’arte e oggetto d’uso.
Lapidea, una ricerca sugli impasti di argilla, che affida al volume la bellezza della materia e, allo stesso tempo, la sua capacità di rappresentazione
Progetti in cantiere?
Lavorare sull’argilla, con cui ho realizzato la serie Lapidea, fatta di un amalgama per cui ho ottenuto recentemente un brevetto, mi ha aperto una serie di possibilità che spaziano dalla realizzazione di complementi arredo, a quella dei rivestimenti e dell’arredo bagno. Adesso sono alle prese con test fisico-meccanici per capirne le reali caratteristiche, in funzione di una sua applicabilità in edilizia.
Sempre e comunque con le “mani in pasta”…
Questa riflessione sull’argilla mi sta catturando molto, mi sembra così di recuperare un rapporto più diretto con la terra. M’interessa l’esplorazione di territori per utilizzare specifiche argille, forse con il semplice intento di sperimentare le diverse qualità dei materiali, forse per una volontà di semplicità e di ritorno alle origini, forse per questioni etiche.
In copertina, tre pezzi della collezione Lapidea lavorata da Gaetano Di Gregorio, che si confronta con la matrice minerale dell’argilla e richiama al mondo delle pietre