di Federica Capoduri.
Progettista di prodotto e consulente per studi di architettura e aziende di arredamento, Mario Ferrarini si afferma nel panorama del design grazie al suo stile pragmatico e pulito, dove amabilmente riesce a unirvi anche un tocco caldo e accogliente.
L’esser nato e cresciuto a Como, respirando l’aria razionalista e minimale di Terragni e Cattaneo, gli ha permesso di formare un imprinting di un particolare linguaggio che, prima con la laurea in Disegno Industriale al Politecnico di Milano e poi con l’apertura del suo studio svizzero di Lugano, sviluppa sotto forma di numerose e affascinanti collezioni.
Mario Ferrarini, foto di Simone Barbieri; a destra il lavello Ago 3C, per Antoniolupi
Come designer e quindi sorta di “genitore di prodotto”, come vivi il distacco dell’idea quando passa in mano all’azienda?
È stato difficile capirne il senso, all’inizio di questa relazione con il prodotto. Era talmente un attaccamento, che ho condiviso peraltro con molti colleghi nel corso degli anni, tale da limitarti nel presentarlo alle aziende per “paura di”. Paura venisse rubato, copiato, modificato, cancellato, annullato, deriso.
Questo ha comportato una grave forma di tutela che annulla il senso proprio di questo mestiere. In realtà ci metti tempo a capire, prima di tutto, che volente o nolente se un’azienda ha buone o cattive intenzioni, devi pur sempre presentarlo per scoprirlo. In secondo luogo, devi rimanere un sognatore, anche immaginando un dialogo sempre propositivo con i clienti.
Poi, comunque, ci pensa anche il mercato a dettar legge.
La realtà ti riporta sempre a un’analisi statistica chiara dove, giustamente, pochi prodotti superano questa selezione. È esattamente una selezione naturale, viva, e il cliente diventa il tuo partner, il tuo compagno in quel momento nella bigenitorialità di sorta.
Dialogo, serie di lavabi per Atlas Concorde
Quindi lo riconosci come un legame molto forte.
È una relazione di coppia a tutti gli effetti, dove entrambi, confidiamo subito nella pronta maturità del nostro “amore”, che deve vivere nel mondo, generando una soddisfazione proficua al padre e alla madre.
Personalmente, e forse brutalmente, mi affeziono molto alla storia che genera il prodotto. Alla relazione, al concepimento, alla costruzione del senso, che poi inesorabilmente arriva nel mondo e da lì inizia a camminare con le proprie gambe. Vivo quindi molto intensamente la relazione, per poi lasciare libertà di espressione al prodotto, senza affezione eccessiva.
Ariel, sedia per Davis Furniture
Secondo te, oggi, il design è più un settore di nicchia o di larga scala?
Media e larga scala, diciamo. Ci sono delle specialità che per forza di cose non possono entrare pienamente di diritto nelle logiche della produzione seriale di massa, ed è giusto così. L’uomo desidera la personalizzazione in un certo senso, vuole percepire una forma di unicità di ciò che fa e vive.
Parlando di progettazione cerco di spingermi verso una produzione più massiva ma semplicemente perché come attore progettuale trovo molto più complesse le dinamiche, le scelte strategiche, i limiti in generale, talmente affascinanti da divenire una sfida: si tratta in buona sostanza di equazioni ad incognite da risolvere. Un equilibrio da trovare, sottile, ma sorprendente. Parlo quindi di processo, non di risultato.
Myg, sgabello impilabile per Desalto
Beam, tavolo allungabile per Desalto
Trovi cambiato, nel corso degli anni, il dialogo tra progettista e azienda?
Trovo molta difficoltà nel vedere complicità con i nuovi clienti. C’è sempre un livello di attenzione tale da consentire l’abbattimento di certi schemi mentali e di socialità relazionale dopo diverso tempo. L’uomo non è fatto per fidarsi forse, ma, se si definisce un percorso a tempo, sarebbe da imporre la fiducia reciproca come necessaria.
Poi ci si può sparare alle spalle. Questo per dire che il nostro compito di designer non è avere un cappello da cui estrarre idee illuminanti, ma un partner che dovrebbe prima comprendere chi è l’azienda, chi sono le persone, come vivono e come lavorano, quale forza e quale debolezza, così da intercettare degli spunti su cui costruire una storia. Un prodotto alla fine è un racconto aldilà della sua fisicità.
Breccia, top con lavello integrato, per Antoniolupi
Sul racconto: come mai, come molti progettisti italiani, hai scelto una comunicazione totally english?
Esigenza d’internazionalizzazione? Personale, intendo. A volte ho l’impressione, per cultura, per abitudini familiari, sia l’espressione di un desiderio. Sentirsi quindi parte di un mondo più ampio, più trasversale senza confini. Certo, anche dovuta alla scarsa istruzione alle lingue del sistema scolastico italiano; probabilmente deriva anche da qui.
Ma anche da una sorta di curiosità nell’immaginare e desiderare relazioni professionali con paesi diversi, modi di ragionare diversi. In un certo senso si ha un atteggiamento poco accomodante e più costruttivo, anche distruttivo, in quanto vogliamo situazioni ignote per evitare la consuetudine.
Aspetto che ritroviamo anche nella tua scelta di base lavorativa: a Lugano, in quell’appendice svizzera sei comunque un italiano all’estero. Cambiano i rapporti?
Dal punto di vista del lavoro in generale, con realtà italiane e non, credo che il rapporto funzioni nel momento in cui si abbandona il primo approccio formale per sentirsi parte di una famiglia, in cui non si ostacolano pensieri, anche se critici. Nello specifico posso dire che i rapporti con le aziende estere sono molto diversi, ci si mette tempo a trovare il feeling, ma reputo sia spesso molto più adeguato a rapporti duraturi.
Dettaglio del sito di Mario Ferrarini
Il tuo sito denota anche una precisa scelta cromatica: un tono su tono di nuance calde, una palette “autunnale” che non spazia troppo dal marrone al grigio, dal tortora al bianco.
È il risultato di molte ore spese a guardare e cercare di capire i propri prodotti, cercando di cogliere per ognuno di essi una sfumatura. Per sfumatura intendo un dettaglio significante.
La scelta cromatica deriva dalla necessità di rendere omogeneo il mio percorso, attraverso questa desaturazione bilanciata che consente di far emergere proprio queste diverse sfumature, le caratteristiche, dei diversi progetti. Unità alla necessità di unificare foto realizzate in diversi anni, con diversi brand, scattate da diversi fotografi.
Mastello, vasca per Antoniolupi
Tra le mura domestiche, durante il periodo di “fermo”, hai progettato nuove idee o ti è servito a riflettere sul già fatto?
L’incertezza e l’ignoto di questa situazione mi hanno spinto a comportarmi esattamente (con le dovute attenzioni) come se nulla fosse. Questo credo sia dovuto – oltre a certamente la paura per il futuro di cui siamo stati tutti in questo momento uniti – al fatto che la progettazione necessita naturalmente di una forma di isolamento.
Attenzione, “naturalmente” inteso per il metodo, non certo in quanto l’uomo sia predisposto all’isolamento e all’introspezione. Questo mestiere è spesso connotato da una fortissima componente analitica, che obbliga ad ignorare l’intorno. Nel mio caso non ho pensato a nuove soluzioni per vivere, mi è stato sufficiente vedere il business legato al distanziamento con ogni sorta di pannello in pvc o vetro, per sperare di tornare alla normalità quanto prima.
Keel, sedia per Potocco; Mario, ritratto da Simone Barbieri
Nell’immagine di copertina, vasca Mastello, design Mario Ferrarini per Antoniolupi