“P” come piatto in cui mangiamo
di Marco Boietti.
Piatto è un aggettivo. Sinonimo di scialbo, spento, non interessante. Piatto in qualità di sostantivo è altro. Per la sua capacità di animarsi, di trasformarsi, di interpretarsi, di evolversi. La foglia verde, eco-compatibile, adottata da un modello di civiltà molto, o forse, troppo lontana da quella occidentale contemporanea, assume col tempo le forme di un contenitore per vivande non solo apprezzabile per l’uso ma sempre più elegante, ricercato, fintanto prezioso. Forse risiede proprio nell’uso scontato, quotidiano, automaticamente ripetuto di un piatto, la difficoltà di riscoprire il piacere dell’istante, di comprendere un’intuizione, di condividere un momento di fantasia creativa.
In altre parole, un quadro di perfetta monotonia. E la monotonia nella sua ripetizione genera tristezza. Piatto nell’accezione di aggettivo può essere l’incapacità di cogliere la concezione, l’idea generale dell’oggetto quale è. Un piatto in quanto tale è e rimane un piatto e difficilmente un piccolo dettaglio devierà il nostro pensiero dall’idea che del piatto abbiamo. Il fatto che poi venga fabbricato in serie non farà che amplificare l’idea di oggetto destinato a soddisfare bisogni su larga scala.
La tentazione è un richiamo molto forte e anche il progetto concepito da una grande mente nella sua individualità rischia di non essere del tutto compreso. Potremmo consumare cibi e pietanze anche senza ricorrere ad un piatto ma quel piatto – aggettivo – diventa piatto – sostantivo ovvero materia per quel valore che unisca capacità di pensiero e poetica del gesto.
Nelle immagini: collezioni Villeroy&Boch